55. Area di Largo di Porta Sant’Agostino
Necropoli. Metà II – metà IV secolo d.C.
1353 o 1356. Scavi per la costruzione delle fortificazioni del XIV secolo presso porta Cittanova
Una serie di documenti compilati tra il XVI e il XVIII secolo ricorda il rinvenimento tra il 1353 e il 1356 di due sarcofagi successivamente trasportati presso il Duomo. Le diverse versioni tramandate dalle fonti non consentono di stabilire con certezza quali fossero i due monumenti citati, variamente identificati con i sarcofagi di Bruttia Aureliana, di Appeiena Philumene, di Clodia Plautilla e con quello cosiddetto dei Valentini. L’attribuzione di quest’ultimo sarcofago è comunque incerta, in quanto è probabile che esso possa essere riferito al ritrovamento descritto al rinvenimento 99.
Il rinvenimento si inquadra nell’ambito della necropoli occidentale di Mutina. I sarcofagi sono conservati presso il Museo Lapidario Estense.
Approfondimento
La Cronaca di San Cesario risalente al XIV o al XV secolo, ma a noi nota soltanto attraverso copie trascritte tra il XVI e il XVIII secolo, riporta la notizia del rinvenimento di due sarcofagi in pietra trovati durante la costruzione delle fortificazioni presso porta Cittanova nel 1353 o nel 1356. La stessa cronaca specifica anche che i sarcofagi furono trasportati presso il Duomo. Tra i copisti della Cronaca di San Cesario c’è anche Tommasino de’ Bianchi, il quale, trascrivendola, ricorda che ai suoi tempi (1536) i due sarcofagi erano utilizzati come botteghe davanti al Duomo. Altri cronisti del XVII e XVIII secolo ( Vedriani , A. Balugoli, Franchini) specificano che i sarcofagi di Bruttia Aureliana e Appeiena Philumene erano stati utilizzati come botteghe d’orefici. Rifacendosi a queste notizie alcuni autori hanno ritenuto che fossero questi i due sarcofagi di cui parla la Cronaca di San Cesario. Altre copie della stessa cronaca identificano invece la coppia di sarcofagi scoperti nel XIV secolo a Porta Cittanova con quelli reimpiegati come sepolcri presso il lato meridionale del Duomo dalle famiglie Balugola e Valentini. Seguendo questa versione, i due sarcofagi potrebbero essere identificati con quelli di Clodia Plautilla, che riporta un’iscrizione testimoniante il riutilizzo dei Balugola, e con quello noto come sarcofago Valentini per la lunga iscrizione funeraria fatta incidere nel 1611 sulla fronte del sarcofago.
Per dirimere in parte la complessa vicenda può essere di aiuto la testimonianza dell’umanista Ciriaco d’Ancona, il quale durante una visita a Modena nel 1443, vide presso il Duomo i sarcofagi di Bruttia Aureliana, Appeiena Philumene e di Clodia Plautilla. In questo caso, l’unico che sembrerebbe potere essere escluso è quello dei Valentini forse più agevolmente identificabile con quello di M. Aurelius Processanus (rinvenimento 99).
Fonti e documenti
1356. Cavandosi le fosse del borgo di sopra gli furno trovate quelle due Arche di pietra viva che sono in piaza apresso il Duomo e quell’anno fu spianate le cerche vechie, quale andavano intorno alla città dalle murazze di Santo Lazare et di fuora della torre del borgo apresso [apresso].
Un’altra copia della Cronaca di S. Cesario riporta la stessa notizia, aggiungendo che i due sarcofagi erano quelli reimpiegati dalle famiglie Valentini e Balugola:
Nelli anni 1356 cavandossi le fosse del borgo di sopra gli furono trovato l’arca di Valentini e quella de Balugola; i quali sono al presente fuora delle Rezze grande in piazza…
El detto anno [1353] cavando le fosse del borgo de Cittanova dal lato di sopra ge fu trovato quelle doe arche grande de prede vive che sono in testada del domo de Modena da denante sotto ale quale ge doe botege sotto questo dì 13 zenare 1536 che io Thomasino Lanciloto modenexo scrivo.
Rinvenimenti
Sarcofago di Bruttia Aureliana
Sarcofago a decorazione architettonica, databile intorno al 250-270 d.C. in base all’acconciatura che appare nel ritratto femminile scolpito nell’acroterio sinistro del coperchio. Il sarcofago fu reimpiegato nel IV secolo per Bruttia Aureliana, nipote di Flavius Gallicanus, consul ordinarius nel 330 d.C., come attesta la dedica che il marito della defunta Flavius Vitalis fece incidere dopo l’erasione dell’iscrizione precedente.
La decorazione originaria venne invece conservata integralmente. I ritratti dei primi committenti sono inseriti nelle finte arcate a fianco dell’iscrizione sulla fronte del sarcofago. I lati brevi sono decorati da membrature ad arco ribassato sostenuto da mensole.
Sul fianco destro è riconoscibile una scena di caccia al cinghiale, su quello sinistro sono invece rappresentati i due coniugi a banchetto sdraiati sui letti tricliniari, serviti di vivande dai loro servitori. L’associazione della scena di caccia con la raffigurazione dei defunti a banchetto doveva sottolineare il benessere di cui godeva il proprietario del sarcofago. Il coperchio con acroteri angolari è del tipo a tetto displuviato con motivo a squame. Sui timpani sono scolpiti i simboli delle stagioni.
Rinvenuto nel XIV secolo, il sarcofago venne esposto inizialmente in Piazza Grande tra la Ghirlandina e il Palazzo Comunale. Nel XVI secolo venne utilizzato, probabilmente come copertura e ripostiglio per una bottega d’orefice presso la facciata del Duomo.
Brutt(iae) Aurelianae, c(larissimae) f(eminae), / filiae Musolami patron(i) et Aste/riae, c(larissimae) f(eminae), nep(o)ti Marcellin(i) ex comit(e) / et Marinae et Gallicani cons(uli)s / ordinari, quae vixit ann(os) XXXVII / mens(es) X dies XVIIII, ob merita / honestatis et concordiae / coniugalis Fl(avius) Vitalis, v(ir) c(larissimus), protec(tor) / et notarius uxori amantissim(a)e / et sibi.
A Bruttia Aureliana, donna nobilissima, figlia del patrono Musolamo e di Asteria, donna nobilissima, nipote del comes Marcellino e di Marina e del console ordinario Gallicano, che visse 37 anni, 10 mesi e 19 giorni, per i suoi meriti di onestà e concordia coniugale, Flavio Vitale, uomo di rango senatorio, protettore e notaio, dedicò il monumento alla moglie che molto lo amò e a se stesso.
L’altissimo ceto che pervenne a Bruttia Aureliana dalla linea materna (Asteria, sua madre, è infatti clarissima foemina), le consentì il matrimonio con un alto funzionario di rango senatorio, il protector et notarius Flavius Vitalis. Il padre Musolamius era soltanto un nobile locale, ma certo molto influente, se poté esercitare il patronato sulla città e legarsi ad una famiglia senatoria così bene inserita nell’ambiente di corte come quella di Flavio Gallicano. Il nonno paterno di Bruttia Aureliana, Marcellinus, padre di Musolamius, aveva ricoperto un incarico nella burocrazia imperiale.
Sarcofago di Appeiena Philumene
Sarcofago a decorazione architettonica databile fra il 260 e il 280 d.C. Sulla fronte l’iscrizione è contenuta all’interno di un’edicola con tetto displuviato con acroteri angolari sostenuto da colonne con capitelli tuscanici. Ai lati dell’iscrizione finte arcate iscrivono bugne appena sbozzate predisposte per la lavorazione. La decorazione non fu compiuta neanche nei lati brevi, dove le bugne sono inquadrate da membrature ad arco ribassato sostenuto da mensole. Agli angoli sono presenti pilastri con capitelli tuscanici. Il coperchio è a forma di tetto displuviato con tegole e acroteri angolari. Sul retro è riconoscibile un’apertura successivamente chiusa con laterizi, attribuibile al reimpiego del sarcofago nel XVI secolo come bottega d’orefice.
D(is) M(anibus). / Appeiena C(ai) f(ilia) Philu/mene, flam(inica) Mut(inae), / sibi et P(ublio) Titio Sabi/no marito viva / posuit.
Agli Dèi Mani. Appeiena Filomena, figlia di Gaio, flaminica di Mutina, da viva pose a se stessa e al marito Publio Tizio Sabino.
Appeiena Philumene, qualificandosi con orgoglio flaminica, ancora in vita erige il monumento per sé ed il marito, Publius Titius Sabinus.
Approfondimento
LE BOTTEGHE DEGLI OREFICI
Alla fine del Quattrocento esistevano lungo i muri della torre Ghirlandina e della Cattedrale numerose botteghe di proprietà della Fabbriceria del Santo, in gran parte occupate da orefici che lavoravano per il Capitolo del Duomo. Alcune di esse erano state collocate fra le colonne che sostenevano antichi monumenti. È questa la sorte dei sarcofagi di Bruttia Aureliana e Appeiena Philumene la cui trasformazione in botteghe è documentata per la prima volta da Tommasino de’ Bianchi nel 1536. Verso la fine del XVI secolo Giovanni Briani riferisce che la bottega ricavata sotto al sarcofago di Bruttia era di proprietà dell’orefice Francesco Bergamasco. La bottega collocata al di sotto del sarcofago di Appeiena è ricordata nuovamente nel XVII secolo da Lodovico Vedriani che la descrive come “bel monumento sostenuto da colonne di marmo molto ben lavorate sotto del quale evvi una bottega d’orefici”.
I restauri eseguiti recentemente sui due sarcofagi hanno fornito conferma di tale trasformazione: rimuovendo i mattoni che chiudevano l’apertura quadrangolare posta nel retro delle casse, sono riapparsi i fori operati per l’inserimento di sportelli in ferro, la cui presenza è indiziata anche da macchie di ossidi ferrosi nel marmo. Attraverso tali aperture gli orefici mettevano al sicuro le loro mercanzie all’interno del sarcofago. Solo nella prima metà del Settecento si mise freno al proliferare di capanne e bottegucce attorno al Duomo, iniziando anzi ad abbatterne numerose, soprattutto a seguito dei lavori eseguiti nella cripta di S. Geminiano nel 1731.
Sarcofago di Clodia Plautilla
Sarcofago a cassapanca, databile nella seconda metà del II secolo d.C. Lo schema decorativo originale del sarcofago prevedeva la realizzazione di due eroti affiancati alla tabella con anse triangolari contenente l’iscrizione funeraria. Il committente però volle probabilmente personalizzare la sepoltura facendo realizzare in luogo degli eroti, dei quali restano le bozze per le mani, ancora leggibili nella parte superiore delle anse, due platani, simboli che evocavano il nome della defunta.
Sul fianco sinistro della cassa, sopra al tradizionale motivo della ghirlanda d’alloro, fece poi scolpire l’immagine del cane della defunta, con l’iscrizione del nome, “Cito”. Il coperchio, che reca un’iscrizione illeggibile in caratteri gotici, non è quello originario e fu probabilmente realizzato in età medievale. Il sarcofago fu reimpiegato in Piazza Grande, a fianco della porta Regia del Duomo, come tomba nobiliare della famiglia dei Balugola.
[V(iva) f(ecit)] / Clodia Plau/tilla sibi et / Q(uinto) Verconio Agathoni, / marito optimo, / et Luciferae lib(ertae). / In fr(onte) p(edes) XX, in agr(o) p(edes) XX. / H(oc) m(onumentum) h(eredem) n(on) s(equetur). // Cito.
Da viva Clodia Plautilla fece (il monumento) a se stessa, all’ottimo marito Quinto Verconio Agatone e alla liberta Lucifera. Il recinto misura 20 piedi sul lato frontale e altrettanti in profondità. Questo monumento non spetterà all’erede. A Cito.
Clodia Plautilla, ancora in vita, dedicò il sepolcro a se stessa, al marito e alla liberta Lucifera, con divieto di sepoltura per gli eredi. L’area sepolcrale misurava circa m 6 x 6. L’avere ricordato sulla tomba anche il cagnolino “Cito” fa pensare che questo fosse molto caro a Clodia; d’altra parte, questo uso non è inconsueto: tra i monumenti funerari conservati nel Museo Lapidario Estense, infatti, si trova una stele con coppia di coniugi, in cui sotto al ritratto della donna è raffigurato un cagnolino (Stele di Scantia Optata).
L’iscrizione in alto (Sepolcrum Nobilium De Balugola) è da attribuire al reimpiego medievale come sepolcro della famiglia Balugola.
Stele di Scantia Optata
Frammento di stele iscritta di calcare. All’interno di una nicchia sono presenti i busti di una coppia di coniugi. Sotto la donna sta un cagnolino. Prima metà del I secolo d.C.
L(ucio) Scantio Casto / Scantia Optata.
Scanzia Optata (dedica) a Lucio Scanzio Casto.
Scantia Optata erige la tomba per il marito Lucius Scantius Castus.