300 e 400

Dopo la costruzione del Duomo, sono i lavori per la cinta muraria trecentesca, iniziata nel 1323, a segnare la seconda tappa della storia dei rinvenimenti archeologici modenesi. Si tratta, è vero, di recuperi occasionali, ma è ormai ferma la coscienza del valore non solo documentario, ma anche pecuniario di quanto si rinviene. Prova di ciò sono una serie di disposizioni riguardanti l’utilizzo di materiali antichi.

Un documento degli “Statuti di Modena” del 1327 pone il divieto non solo di far uscire dal territorio modenese i reperti antichi rinvenuti sottoterra ma anche di contraffarli. Ha evidentemente avuto inizio quel commercio di antichità, testimoniato dai resoconti di vere e proprie “cacce al tesoro”, la più nota delle quali è senza dubbio quella del “Negromante di Mirandola” (rinvenimento 73).

Su alcuni recuperi trecenteschi si ricavano notizie sia pure contraddittorie e indirette dalle antiche cronache (rinvenimenti 55 e 68), ma si può verosimilmente ipotizzare che dagli scavi per le nuove fortificazioni provenga la maggior parte dei monumenti osservati sul sagrato del Duomo e descritti dall’umanista Ciriaco di Ancona in occasione di una sua visita alla città nel 1443.

Giovanni Marcanova, Collectio Antiquitatum, BE, Lat. 992 = a.L.5.15, c.132 r.
I monumenti funerari romani osservati e descritti da Ciriaco di Ancona ci sono noti attraverso la silloge epigrafica di Giovanni Marcanova.

Nel XIV secolo il riutilizzo di antichi monumenti attorno al Duomo ha un carattere eminentemente “pubblico”: i reperti sono esibiti infatti anche come testimonianze del passato glorioso della città, sia che vengano esposti senza un riuso specifico come tombe, sia che vengano adibiti a sepolture di illustri cittadini che si sono distinti nell’ambito della comunità. A partire dal XV secolo i sarcofagi romani vengono invece utilizzati prevalentemente come sepolture nobiliari e in questo caso il reimpiego diventa “privato”, secondo una tendenza che si affermerà pienamente nel corso del secolo successivo.