Le istituzioni politiche romane nella tarda età repubblicana

Malgrado già dalla metà del II secolo a.C. i confini del dominio di Roma coincidessero con quelli dell’intero bacino del Mediterraneo, l’apparato di governo era ancora quello di una città-stato.

La crisi delle istituzioni repubblicane, ormai inadeguate a governare le sorti di un vero e proprio “impero”, divenne però inarrestabile nel corso del I secolo a.C., e la guerra di Modena ne costituì uno degli episodi finali.

Come aveva sagacemente osservato lo storico greco Polibio di Megalopoli (II secolo a.C.) nella Roma repubblicana convivevano tre distinte forme di potere: un potere di tipo “monarchico” affidato ai magistrati di rango più elevato, i due consoli annuali, un potere di tipo “aristocratico” (o meglio “oligarchico”) che si identificava con l’assemblea del Senato, ed infine un potere di tipo “democratico”, rivestito da tutti i cittadini di pieno diritto, riuniti nelle due grandi assemblee popolari: i comizi centuriati ed i comizi tributi.

I consoli

I due consoli erano i più alti funzionari della Repubblica e venivano eletti ogni anno nei comizi centuriati. Sino alla metà del II secolo a.C. entravano in carica il 1 marzo, successivamente il 1 gennaio. I consoli riunivano nelle loro mani i poteri militari e civili.

Come detentori del supremo comando militare (imperium) essi rappresentavano l’alto comando dell’esercito romano, indicevano il reclutamento, completavano le legioni, nominavano i tribuni militari (sorta di luogotenenti) e dirigevano le operazioni belliche del cui esito rispondevano davanti al Senato. Come detentori del potere civile (potestas) potevano convocare il Senato e le assemblee popolari, che presiedevano.

Essi erano pertanto i principali esecutori delle decisioni del Senato e del popolo. Dal III secolo a.C. in poi, al termine del loro mandato annuale, ai consoli veniva di norma prorogato il comando militare affinché fosse loro affidato in veste di proconsoli il governo di una provincia.

Accanto a quella dei consoli esistevano anche altre magistrature superiori, dotate cioè di imperium:

I pretori

Erano i più alti dirigenti della procedura giudiziaria. A partire dalla metà del III secolo a.C. venivano eletti annualmente due pretori: uno “urbano” (praetor urbanus) ed uno “extraurbano” (praetor peregrinus) o più propriamente il pretore per gli stranieri.

Il primo dirimeva le questioni giudiziarie tra cittadini, il secondo tra stranieri o tra cittadini e stranieri. Nelle cause penali i pretori presiedevano le commissioni giudiziarie, in quelle civili convocavano al processo le parti e nominavano i giudici a cui davano le istruzioni.

Dopo la prima guerra romano – cartaginese vennero inoltre creati dei pretori ad hoc per il governo delle province; in seguito, con il moltiplicarsi del numero delle province aumentò anche il numero dei pretori che nel I secolo a.C. divennero sedici.

Le altre cariche dotate di potere militare erano tutte straordinarie: esse comprendevano i dittatori, i magistri equitum, i decemviri addetti all’organizzazione delle nuove province, i tribuni militari con potere consolare ed infine i triumviri per l’organizzazione dello stato.

Ai magistrati senza imperium, ossia privi di potere militare, afferivano diverse cariche istituzionali:

I censori

Scelti di norma tra gli ex consoli, i due censori erano i più autorevoli fra i magistrati senza potere militare (imperium).

Le loro competenze riguardavano: la compilazione delle liste dei senatori, dalle quali potevano cancellare i nominativi di coloro che, per motivi di censo o moralità, non rispondevano più alla carica o inserire nuovi nominativi (lectio senatus); la compilazione degli elenchi dei cittadini romani di pieno diritto (census); la sorveglianza sui pubblici costumi (cura morum) ed infine la direzione dei lavori pubblici.

I tribuni della plebe

Magistrati senza imperium (ossia privi di potere militare) venivano eletti annualmente in numero di dieci.

Il loro ruolo era quello di controllo delle istituzioni democratiche della repubblica; il primo e più antico diritto fondamentale dei tribuni era il cosiddetto ius auxilii: grazie ad esso il tribuno della plebe era obbligato ad intervenire personalmente a favore di qualsiasi cittadino romano che si fosse a lui rivolto per un reclamo contro un magistrato.

Dallo ius auxilii si sviluppò successivamente un diritto più vasto di intervento contro le disposizioni non solo dei magistrati dello stato, ma anche verso le decisioni del Senato e le rogazioni presentate dalle assemblee popolari qualora i tribuni le ritenessero contrarie agli interessi dei cittadini.

La protesta dei tribuni si manifestava con la parola “veto”, che aveva il potere di far sospendere l’atto sino a quando il tribuno stesso non toglieva la sua opposizione.

Durante i primi secoli della Repubblica i tribuni avevano il diritto di convocare solamente le assemblee della plebe; successivamente, a partire dall’età dei Gracchi (fine del II secolo a.C.), quando le competenze dell’assemblea della plebe vennero a coincidere con quelle dei comizi tributi, i tribuni della plebe ebbero la possibilità di convocare anche questa assemblea, diventando quindi protagonisti al pari di altri magistrati della legislazione della cosa pubblica.

Il tribunato storicamente fu un importante organo della democrazia romana e fu particolarmente rilevante proprio nella convulsa fase storica delle guerre civili del I secolo a.C.; purtroppo, dal momento che ogni singolo tribuno aveva autorità di veto anche nei confronti degli altri colleghi, il tribunato era facilmente oggetto di corruzione, potendo trasformarsi, come accadde non di rado, in un organo che appoggiava tentativi di dittatura militare.

Gli edili

Magistrati senza imperium (ossia privi di potere militare), venivano eletti ogni anno in numero di quattro.

Si prendevano cura dell’ordine pubblico di Roma e dei suoi dintorni per il raggio di un miglio, della sorveglianza degli edifici sacri e delle costruzioni pubbliche, della manutenzione delle strade, delle piazze e degli edifici termali.

Dovevano inoltre preoccuparsi dei rifornimenti dei viveri per la città di Roma, lottare contro la speculazione sui prezzi dei beni di prima necessità ed infine controllare i pesi e le misure ufficiali.

I questori

Magistrati senza imperium (ossia privi di potere militare), il cui numero andò sempre aumentando per tutta l’età repubblicana sino a giungere, sotto Cesare, a quaranta.

Si dividevano in questori urbani e questori provinciali: i primi risiedevano a Roma ed amministravano di fatto, per conto del senato, il tesoro dello stato (aerarium) custodito nel tempio di Saturno nel foro Romano.

I questori provinciali o militari erano gli aiutanti dei governatori delle province e potevano sostituirli in caso di assenza; essi amministravano le unità militari, il tesoro provinciale, curavano il pagamento degli stipendi e la vendita del bottino di guerra.

La questura era il gradino più basso della scala gerarchica delle magistrature romane e da essa, normalmente, si iniziava la carriera politica (cursus honorum).

Il senato

Riuniva l’aristocrazia romana e costituiva l’organo dirigente della repubblica. I senatori erano trecento sino all’inizio del I secolo a.C., e divennero seicento in seguito ad una legge di Silla.

Erano in gran parte reclutati tra le fila degli ex magistrati della repubblica: gli ex dittatori, consoli, censori e pretori.

A partire dal IV secolo a.C. la nomina dei senatori era affidata a speciali magistrati, i censori; ogni cinque anni i censori rivedevano le liste dei senatori, ne eliminavano coloro che per motivi di censo od altre ragioni non potevano più far parte dell’assemblea e ne iscrivevano di nuovi (lectio senatus).

I senatori si dividevano in ranghi: al primo posto stavano i cosiddetti “senatori curuli”, cioè gli ex dittatori, ex consoli, ex censori, ex pretori ed ex edili curuli; dopo venivano gli altri, cioè gli ex edili plebei, gli ex tribuni della plebe, gli ex questori.

Il senatore più anziano ed autorevole stava simbolicamente a capo dell’assemblea ed era detto princeps senatus. In questo modo tra Senato e magistrati della repubblica vi era unità di intenti ed azione politica poiché ogni nuovo magistrato veniva reclutato dalle file del Senato e, al termine della sua carica, vi ritornava come ex magistrato; ciò favorì la compattezza dell’assemblea e la sostanziale assenza di disaccordi.

Il Senato costituiva un organo permanente, depositario della tradizione e di una grande esperienza amministrativa. Il Senato poteva essere convocato e presieduto da tutti i magistrati straordinari, come ad esempio i dittatori, o dai magistrati ordinari dotati di imperium, come i consoli ed i pretori; più tardi questo diritto spettò anche ai tribuni della plebe.

Il campo di competenza del Senato era vastissimo, pur subendo limitazioni consistenti nel tempo; prima del 339 a.C., ad esempio, ad esso spettava il diritto di ratificare tutte le decisioni prese dalle assemblee popolari; successivamente questo diritto fu ridotto alla sola approvazione preventiva dei disegni di legge che si dovevano presentare ai comizi; una procedura simile avvenne anche per la candidatura dei magistrati, un tempo esclusiva competenza dell’assemblea. In caso di pericoli interni od esterni il senato poteva dichiarare lo stato di assedio nominando un alto magistrato straordinario dotato di imperium, un dittatore, che restava in carica per sei mesi.

Ai senatori spettava poi la direzione degli affari militari: stabilivano l’epoca del reclutamento e le modalità di costituzione dei contingenti (se di cittadini romani, di alleati ecc.), decidevano lo scioglimento dell’esercito, controllavano la suddivisione delle unità tra i capi militari, concedevano i trionfi e gli altri onori ai condottieri vittoriosi.
Il Senato controllava tutta la politica estera. Anche se il diritto di dichiarare guerra, di concludere la pace ed i trattati di alleanza spettavano in ultima istanza alle decisioni delle assemblee popolari, il Senato si occupava di tutto il lavoro diplomatico e dell’organizzazione amministrativa dei territori conquistati.

Il Senato controllava poi le finanze ed i beni dello Stato, redigeva il bilancio (di norma per cinque anni), stabiliva il carattere e l’ammontare delle imposte, controllava e dirigeva la zecca. Sino al 123 a.C. il suo alto potere giudiziario si esprimeva con la presenza esclusiva all’interno delle commissioni giudiziarie permanenti di membri del senato; da questa data in poi, grazie ad una radicale riforma del tribuno della plebe Caio Gracco, i tribunali passarono nelle mani del ceto equestre, che rappresentava nella Roma repubblicana la ricca borghesia imprenditoriale.
Il Senato, in sostanza, costituiva il più alto organo amministrativo della repubblica e ad esso era affidato il supremo controllo della vita dello stato.

I comizi

Le istituzioni romane prevedevano inoltre due diversi tipi di assemblea popolare: i comizi centuriati ed i comizi tributi.

I comizi centuriati costituirono per lungo tempo la forma più alta di assemblea popolare dello stato romano; in questa assemblea si riunivano per le votazioni tutti i cittadini maschi adulti suddivisi in tre classi di censo; le singole classi erano a loro volta divise in unità elettorali dette “centurie”; le centurie ammontavano ad un totale di 193, ma i voti unificati della prima classe di censo (18 centurie) e della seconda (80 centurie) assicuravano agli esponenti delle due classi di censo più abbienti il quorum per ottenere la maggioranza assoluta.

I comizi tributi erano strutturati in maniera completamente diversa rispetto ai comizi centuriati: qui i cittadini maschi adulti si riunivano non in base ad un criterio censitario, ma per circoscrizioni elettorali (tribus) a cui ogni elettore apparteneva per domicilio.

Su un totale di 35 tribù avevano netta preponderanza in sede di votazioni le 31 tribù cosiddette “rurali”, dove erano cioè iscritti gli abitanti delle campagne, rispetto alle 4 tribù urbane dove votavano gli abitanti di Roma.

Pertanto se nei comizi centuriati la maggioranza apparteneva agli esponenti dei ceti più abbienti e della aristocrazia urbana, nei comizi tributi essa spettava a quella classe media formata dai piccoli possessori di terre.

Nei primi secoli della repubblica erano i comizi centuriati a costituire la forma più alta di assemblea popolare, ma a partire dal 287 a.C., in seguito all’applicazione della lex Ortensia, furono i comizi tributi a diventare il principale organo legislativo: qui si votavano o si respingevano tutte le leggi costituzionali; inoltre i comizi tributi ebbero anche compiti giudiziari, dovendo decidere le questioni penali che comportavano l’applicazione di pene pecuniarie.

Nei comizi tributi venivano inoltre eletti gran parte dei magistrati privi di imperium: questori, edili e tribuni della plebe. Ai comizi centuriati comunque rimase sempre una sfera di competenza abbastanza ampia: essi dovevano approvare la dichiarazione di guerra e decidevano, in ultima istanza, la conclusione della pace; eleggevano poi gli alti magistrati ordinari e straordinari con o senza imperium: consoli, pretori, censori, decemviri ed i tribuni militari con poteri consolari.

Infine ai comizi centuriati spettava il giudizio su tutte le cause penali che prevedevano per l’accusato la perdita dei diritti civili.

La crisi del sistema Repubblicano

La crisi delle istituzioni repubblicane durante il I secolo a.C. si manifestò soprattutto attraverso tre sintomi fondamentali e paralleli: impossibilità di creare una stabile maggioranza governativa; costituzione falsata dalla netta preponderanza dei comizi tributi; tentativi da parte di vari esponenti della nobilitas romana di instaurare un potere di tipo dittatoriale.

L’antica maggioranza governativa del III e del II secolo a.C., di cui aristocrazia e classe media costituivano le due tribune principali, era venuta meno per la contrapposizione politica tra l’ordine senatorio che rappresentava la ricca aristocrazia terriera e l’ordine equestre corrispondente ad un ceto agiato imprenditoriale.

Questa contrapposizione sfocerà alla fine del II secolo a.C. in una profonda crisi politica, rendendo impossibile il formarsi di una stabile coalizione di governo.
Classe senatoria e ceto equestre, i due partiti dei ricchi, avevano interessi comuni sul piano sociale e tendevano naturalmente al dialogo; nella politica però l’ordine equestre, rivale dell’aristocrazia senatoria, trovava un alleato naturale nel ceto popolare.

Ciò determinava due possibili maggioranze di coalizione, condizione sfavorevole alla stabilità politica. Una maggioranza alternativa (nobiltà senatoria e plebe) verrà realizzata una sola volta, ma senza successo, nel 91 a. C. dal tribuno Livio Druso.

La preponderanza esclusiva dei comizi tributi, divenuti dopo la lex Ortensia il grande organo legislativo dello Stato, aveva assicurato a questa assemblea popolare piena sovranità in materia legislativa; a partire da quel momento le leggi votate dai comizi tributi ebbero pieno valore legale, ed il senato, con la soppressione del suo diritto di veto, perse gran parte del potere.

Inoltre il sistema elettorale in vigore per i comizi tributi prevedeva che il diritto di voto potesse essere esercitato solo nella città di Roma, anche da parte di quei componenti delle tribù che non vivevano in città, senza limiti del quorum necessario: 35 votanti, uno per ogni circoscrizione elettorale, erano legalmente sufficienti per rappresentare tutto il corpo civico romano.

In tal modo le tribù fecero posto, poco a poco, a rappresentanze elettorali scheletriche, composte da elettori prezzolati reclutati tra il popolino urbano; questi elettori di mestiere non avevano altri mezzi di sussistenza che la corruzione elettorale, ed erano pronti a far passare le leggi proposte dalla fazione politica disposta a pagarli più profumatamente.

Il potere acquisito dai comizi tributi determinò una nuova situazione politica nella quale i magistrati si affrancarono sempre di più dall’autorità morale del senato prendendo l’abitudine di consultare direttamente i comizi intorno ad ogni questione importante.

Lo stesso casus belli della guerra di Modena, la lex de permutatione provinciarum con la quale Antonio ottenne nel giugno del 44 a.C. il governo delle Gallie, costituì una palese violazione all’autorità del senato che, con un apposito senato-consulto, aveva precedentemente affidato la Cisalpina a Decimo Bruto.

Questo episodio fu però uno degli ultimi di questo genere; poco più di un decennio più tardi, con la conclusione delle guerre civili, Ottaviano instaurò un regime personale che pose fine alle istituzioni repubblicane.

Il governo delle province nel I secolo A.C.

Proconsoli e propretori

Durante il I secolo a.C. il governo dei territori non italici sottoposti all’autorità di Roma (province) era affidato ad un governatore che poteva essere un pretore creato appositamente o un promagistrato, e cioè un ex console od un ex pretore a cui veniva prorogato l’imperium militare di un territorio; questi promagistrati erano pertanto designati con il termine di proconsoli o di propretori.

Le province di Sicilia, Sardegna e Corsica e le due province iberiche erano governate da semplici pretori, tutte le altre da promagistrati: i proconsoli erano di norma posti a capo delle province più importanti (ad es. Macedonia, Asia, Siria, Africa proconsolare, Gallia Narbonense); i propretori governavano le province minori.

Il potere del magistrato provinciale romano trovava il proprio fondamento nell’imperium, conferito ex novo o prorogato: esso era simile a quel potere personale ed indiscriminato proprio del magistrato repubblicano ma, essendo tale potere esercitato in una provincia popolata in gran parte da non cittadini, venivano meno i limiti costituzionali esistenti in Roma nei confronti dei cittadini di pieno diritto.

Il governatore era coadiuvato di norma da un proquestore preposto all’amministrazione finanziaria della provincia e da una cohors praetoria composta dalle persone che il governatore aveva al proprio servizio per le ordinarie funzioni di governo.

Il governatore aveva potere giudiziario su tutti i cittadini romani residenti nella provincia (svolgeva in questa circostanza la funzione che aveva in Roma il pretore urbano) e su tutti gli stranieri che non facessero parte di comunità autonome riconosciute da Roma.

In caso di presenza sul territorio provinciale di un presidio militare romano, il comando era affidato al governatore, che decideva anche eventuali azioni di guerra o di polizia.

Sino all’età Sillana (88 -79 a.C.) erano però i due consoli che intervenivano di volta in volta nelle singole province in caso di gravi conflitti, guidando personalmente truppe fatte affluire appositamente da Roma; successivamente fu proprio una legge voluta da Silla a modificare profondamente la destinazione dei comandi militari: venne infatti stabilito che durante l’anno in carica i magistrati dotati di imperium (consoli e pretori) dovessero rimanere in Italia, attendendo alle normali attività amministrative; soltanto l’anno seguente, una volta scaduta la carica, era loro concesso di assumere un comando oltremare in qualità di proconsoli o propretori; a questo si deve aggiungere che Silla fece allargare il pomerium di Roma (confine sacro della città entro il quale non potevano entrare truppe in armi, se non per celebrare il trionfo) dai dintorni della capitale sino ai fiumi Arno e Rubicone; in questo modo si proibì di fatto la presenza di truppe armate nella penisola italiana, privando quindi la carica di console di qualsiasi funzione militare; d’ora in poi saranno esclusivamente i proconsoli ed i propretori a comandare le legioni della repubblica che per di più dovranno operare esclusivamente fuori dei confini dell’Italia.

Le leggi Sillane erano in vigore ancora nel 49 a. C. quando Cesare, governatore della Gallia Cisalpina, fece passare ai suoi eserciti il Rubicone, violando così la sacralità del pomerium e dichiarando di fatto guerra al senato. Il tentativo di Marco Antonio di sottrarre a Decimo Bruto la provincia della Gallia Cisalpina si spiega quindi alla luce della legislazione sillana ancora vigente, che rendeva la Cisalpina la provincia più vicina a Roma dove potevano stazionare truppe armate.